La Comunità francescana di s. Francesco a Folloni vive in modo particolare il carisma dell’accoglienza. Secondo la regola evangelica di s. Francesco i frati e quanti vogliono vivere un’esperienza nella Comunità vivono la preghiera, la gioia di stare insieme e il lavoro manuale.
Per la sua posizione il museo di s. Francesco a Folloni è una struttura museale strettamente collegata al territorio, funzionale alla valorizzazione delle zone interne e alla salvaguardia di un patrimonio artistico particolarmente colpito dal sisma del 1980.
Aperto al pubblico il 18 settembre 1981, ampliato nel novembre ’82, contiene opere recuperate nei paesi più colpiti, come Lioni, Conza della Campania, dove sono stati rinvenuti manufatti d’arte che sono spesso autentiche scoperte. É particolarmente rappresentata l’area della Alta Valle del Calore, qualificata culturalmente dalla presenza dei Cavaniglia che da 1445 e per oltre un secolo tennero il territorio di Montella, Bagnoli e Cassano. Signori di primissimo ordine promossero la cultura e le arti e produssero una situazione di benessere tale che, anche nei secoli a venire, i collegamenti con la cultura della capitale non vennero mai meno.
Durante il secolo XVI, epoca di particolare potenza della famiglia, operarono, per chiese e complessi conventuali della zona, autori di grande notorietà quali Andrea da Salerno (al quale si è soliti attribuire la tavola con l’Assunzione della Vergine seguita per il convento di s. Francesco a Folloni e poi dal 1808, soppresso il convento, conservata a Gaeta nella chiesa di s. Francesco), Marco Pino da Siena, autore nel 1576 della tavola con la Madonna del Rosario dipinta per la chiesa di S. Domenico di Bagnoli, Teodoro D’Errico cui può attribuirsi la straordinaria Circoncisione, olio su tavola, sempre proveniente da S. Domenico (opere queste ultime esposte nel museo).
Ai locali aperti al pubblico il 18 settembre ’81 (il grande refettorio e gli ambienti annessi ad esso) sono stati aggiunti altri spazi (il grande chiostro cinquecentesco e due piccole stanze che su questo prospettano). Altre opere dunque sono andate ad aggiungersi a quelle precedentemente esposte. Molte di queste sono state già restaurate, altre sono in corso di restauro. I restauri, tranne che per qualche caso particolarissimo, sono stati condotti tutti in loco, nel laboratorio che fa parte
integrante del museo, nato subito dopo il sisma per il pronto intervento e oggi organizzato in modo da consentire l’esecuzione di tutte le fasi degli interventi restaurativi. É, questa della conservazione in loco, una scelta ben precisa che tende alla valorizzazione di tutto un tessuto culturale e non di una singola opera d’arte. A questo fine si vanno istituendo altri musei che, come quello di S. Francesco, insistano e si occupino di zone culturalmente omogenee.
Per S. Francesco, come dicevamo, i restauri sono stati condotti tutti in loco e quello che più conta a porte aperte. Perché quello di S. Francesco è un museo speciale. É abbastanza consueto il fatto che un museo che si rispetti abbia il suo laboratorio, è invece inconsueto il fatto che vi siano esposte opere non ancora restaurate o in corso di restauro, è ancora più inconsueto il fatto che le operazioni di restauro possano essere seguite da tutti. E questo di solito non accade in altri musei dove esiste una netta differenziazione tra lo spazio espositivo e il laboratorio di restauro, dove le opere esposte sono solo quelle restaurate, dove solo gli addetti ai lavori, ma soltanto a pochi, viene premesso di visitare i laboratori. A S. Francesco questo ordine precostituito è rovesciato e le opere sono visibili sempre prima del restauro, durante gli interventi, quando le decisioni sul tipo di restauro da eseguire sono ancora tutte da prendere, e naturalmente, dopo. Ed è questo un tentativo di coinvolgere nella problematica dei beni culturali più vasti strati di pubblico che è molto interessato alle tecniche artistiche, alla materialità dell’opera, e quindi alle tecniche di restauro. L’ampliamento del suo laboratorio di restauro che oggi occupa l’intero Refettorio il quale era invece usato, nella precedente edizione del museo, esclusivamente come spazio espositivo. Maggiore spazio per restaurare dunque, ma anche maggiore spazio per vedere restaurare e per imparare e a restaurare.
Siamo convinti che la salvaguardia di un territorio e dei suoi beni culturali non si attua senza il coinvolgimento, non soltanto emozionale, ma squisitamente attivo delle forze locali. Siamo convinti che il restauro dei beni culturali può innescare nel territorio dei processi produttivi, può anche dare lavoro e creare occupazione. Bisogna stare attenti però perché il restauro è un mestiere che si impara, non si improvvisa e richiede un’alta qualificazione professionale. É un
mestiere che si impara presso gli Istituti di Restauro di Roma o di Firenze, organi del ministero delegato a questa funzione, o nei laboratori della Soprintendenza, e da parte nostra c’è tutta la disponibilità a mettere le nostre strutture a disposizione di quanti vogliono impegnarsi in questo senso. É quanto stiamo tentando di fare ad Avellino, dove esiste un piccolo laboratorio di restauro annesso al museo creato ex novo.
Al carattere di laboratorio-scuola di S. Francesco, si affianca quello di museo sempre vivo: le opere provenienti dal territorio vengono esposte al pubblico per un periodo di tempo limitato. Appena messe in condizioni di tornare nelle loro sedi di origine, ove queste siano pronte a riceverle, daranno il posto ad altre opere egualmente sconosciute al grosso pubblico, egualmente bisognevoli di restauro. Questa caratteristica, che rende il museo una struttura in continuo divenire, sempre in grado di mostrare nuove cose e agguantare i problemi da un punto di vista diverso, lo rende particolarmente appetibile.
D’altro canto è ormai scontato che l’eccezionale gradimento registrato dalle mostre è dovuto al loro carattere di temporaneità, carattere che manca ai musei tradizionali che sono i luoghi deputati ad esporre al pubblico una stessa immutevole collezione d’arte, e ad una maggiore cura e puntualità del cartellinaggio che si pone come obiettivo quello di consentire un agevole approccio alle opere. L’intestazione delle schede, notevolmente più lunga rispetto a quella della prima edizione al fine di dare il maggior numero di informazioni possibili, è concepita in modo un pò inconsueto. Prima di tutto viene indicata l’opera, definendo immediatamente che cosa questa rappresenti, poi ne viene descritta la materia e la tecnica, subito dopo il secolo in cui è stata realizzata e, se documentato, il nome dell’artista; infine ne viene indicata la provenienza.
Questo contravvenendo alla prassi diffusa tra gli storici dell’arte di indicare prima di tutto l’autore, o la scuola, e il secolo che produsse l’opera per poi descrivere l’oggetto esaminato.
Il museo di s. Francesco a Folloni non si può dire che non sia un museo di nomi importanti: Solimena, Vaccaro, Teodoro D’Errico, Paolo De Maio, Gerolamo Storace, Giovanni da Nola e con ogni probabilità Palma il Giovane, se a lui può attribuirsi il grande quadro con la Redenzione proveniente dalla chiesa madre di Volturara. Ma, vogliamo ripeterlo ancora una volta, non sono i nomi importanti che fanno del museo di S. Francesco un museo importante, è piuttosto il tentativo di documentare attraverso le opere la cultura di un territorio, un territorio in cui ancora molto è da
scoprire, di cogliere nei suoi valori corali, in una visione integrata, tutta la sua storia.
Complesso Conventuale San Francesco a Folloni
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